Leggende Orientali – LA STORIA DI MIMI – NASHI – HOICHI

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Leggenda dal Giappone

Tradotta da Dario55

LA STORIA DI MIMI – NASHI – HOICHI

Più di settecento anni fa, a Dan-no-ura, nello stretto di Shimonoseki, fu combattuta la battaglia definitiva della lunga guerra tra il clan Heiké e il clan Genji. Gli Heiké morirono tutti, comprese donne, bambini, e l’erede dell’Imperatore, che viene ricordato con il nome di Antoku Tennô.
Su quella spiaggia si trovano degli strani granchi chiamati “Heiké”, con volti umani sul dorso. Si dice siano gli spiriti dei guerrieri Heiké.
Ma tra le cose strane che si possono vedere e udire lungo quella costa ci sono anche migliaia di fuochi fatui che nelle notti oscure si sollevano presso la spiaggia o svolazzano sul mare, pallide luci che i pescatori chiamano Oni-bi ossia “fuochi demoni”, e tutte le volte che soffia il vento, dal mare si sentono provenire alte grida, simili al clamore di una battaglia.
Negli anni passati gli Heiké erano molto più inquieti di quanto lo sono ora. Salivano sulle navi durante la notte cercando di affondarle e vigilavano sempre alla ricerca di nuotatori da trascinare sott’acqua. Proprio per placare quei morti fu costruito il tempio buddista di Amidaji presso Akamagaséki. Subito accanto al tempio, nelle immediate vicinanze della spiaggia, fu costruito un cimitero e al suo interno furono collocati dei monumenti con incisi i nomi dell’Imperatore annegato e dei suoi grandi samurai. Oltre a questo, si celebravano regolarmente nel tempio riti buddisti in onore delle loro anime.
Dopo la costruzione del tempio e l’erezione delle tombe, gli Heiké diedero meno disturbo, ma continuarono periodicamente a fare strane cose, a riprova che non avevano trovato la pace perfetta.

Alcuni secoli fa viveva ad Akamagaséki un uomo cieco di nome Hôïchi, celebre per la sua eccezionale capacità di recitare e di suonare il biwa. Da bambino era stato istruito a recitare e a suonare, e quando era ancora un ragazzo, aveva superato i maestri. Come biwa-hôshi divenne celebre soprattutto per la sua recitazione della storia degli Heiké e dei Genji. Si diceva che, quando cantava la storia della battaglia di Dan-no-ura, “perfino i goblin [kijin] non potevano trattenere le lacrime”.

Hoichi

All’inizio della sua carriera Hôïchi era molto povero, ma conobbe un buon amico che lo aiutò: il sacerdote di Amidaji. Questi era appassionato di poesia e di musica e invitava spesso Hôïchi al tempio perché suonasse e recitasse. In seguito, molto impressionato dall’eccezionale bravura del ragazzo, il sacerdote propose a Hôïchi di andare ad abitare al tempio, e il ragazzo accettò l’offerta con gratitudine. Hôïchi ricevette una stanza nell’edificio del tempio e in cambio di vitto e alloggio doveva semplicemente deliziare il sacerdote con una esecuzione musicale nelle sere in cui questi non aveva impegni.
Una sera d‘estate il sacerdote fu chiamato a celebrare un servizio buddista nella casa di un fedele morto. Uscì con gli accoliti e lasciò Hôïchi solo nel tempio. Era una sera calda, e il ragazzo cieco cercava un po’ di refrigerio sulla veranda antistante la sua stanza. La veranda guardava su un piccolo giardino sul retro di Amidaji. Hôïchi se ne stava lì aspettando il ritorno del sacerdote e cercava di alleviare la propria solitudine esercitandosi con il biwa. Passò la mezzanotte, e il prete non ritornava. Faceva ancora troppo caldo per ritirarsi in camera, per cui Hôïchi rimase fuori. A un certo momento udì dei passi che si avvicinavano dal cancello posteriore. Qualcuno attraversò il giardino, si avvicinò alla veranda e si fermò direttamente di fronte a lui. Non era il sacerdote. Una voce profonda chiamò per nome il ragazzo cieco, con un tono brusco e senza cerimonie, come un samurai che si rivolge a un inferiore:
«Hôïchi!»
«Hai!» rispose il ragazzo, rabbrividendo al suono di quella voce minacciosa. «Sono cieco, non riesco a vedere chi mi chiama!»
«Non aver paura», disse lo straniero parlando più gentilmente. «Sono venuto al tempio perché sono stato mandato a te con un messaggio. Il mio attuale Signore, una persona di elevatissimo rango, si trova ad Akamagaséki con molti nobili del suo seguito. Desiderava assistere alla rappresentazione della battaglia di Dan-no-ura e oggi è passato di qui. Avendo udito la tua abilità nel recitare la storia di quella battaglia, desidera ascoltare la tua interpretazione. Perciò prendi il tuo biwa e vieni subito con me alla casa in cui l’augusto consesso sta aspettando».
A quei tempi non si poteva disobbedire facilmente all’ordine di un samurai. Hôïchi si mise i sandali, prese il biwa e seguì lo straniero, che fu un’ottima guida ma lo costrinse a camminare molto in fretta. La mano che lo guidava era di ferro e il rumore metallico prodotto dal passo del guerriero dimostrava che era completamente armato, forse una guardia del palazzo in servizio. I primi timori di Hôïchi si erano dileguati: pensava di essere stato molto fortunato perché, ricordando che l’uomo aveva parlato di una “persona di elevatissimo rango”, pensava che il Signore che voleva sentire la sua esecuzione doveva essere almeno un daimyo di prima classe. Poco dopo il samurai si fermò, e Hôïchi si rese conto che erano arrivati presso un grande cancello, e questo lo meravigliò, perché non riusciva a ricordare alcun grande cancello in quella parte della città, ad eccezione del cancello principale di Amidaji.
«Kaimon!» disse il samurai. Si sentì il rumore di chiavistelli aperti, e i due passarono oltre. Attraversarono un giardino e si fermarono di nuovo davanti a un ingresso. L’accompagnatore gridò:
«Voi, di dentro! Ho portato Hôïchi!»
Allora si sentì il rumore di piedi che si affrettavano, di pannelli che scorrevano e di porte che si aprivano, insieme a voci di donne che conversavano. Dal linguaggio delle donne Hôïchi capì che erano cameriere di una casa nobile, ma non riusciva a immaginare in che luogo era stato condotto. Non ebbe molto tempo per riflettere. Dopo essere stato aiutato a salire alcuni gradini di pietra, sull’ultimo dei quali gli fu detto di togliersi i sandali, una mano di donna lo condusse attraverso una fila interminabile di pavimenti lucidi, di svolte da un corridoio all’altro fiancheggiati da colonne, troppi per ricordarseli, e di sale immense ricoperte di stuoie, fino al centro di un grande appartamento. Hôïchi capì che in quella sala doveva essere radunata molta gente: il frusciare della seta ricordava il suono delle foglie in un bosco. Sentiva anche un gran mormorio di voci che parlavano piano: erano le voci della gente di corte.
A Hôïchi fu detto di mettersi a suo agio, e trovò un cuscino pronto per lui. Dopo aver preso posto su di esso e aver accordato il suo strumento, la voce di una donna – che immaginò essere la Rojo, cioè colei che era a capo della servitù femminile – si rivolse a lui dicendo:
«Ti si chiede di recitare la storia degli Heiké accompagnandoti con il biwa».
Il racconto dell’intera storia si sarebbe protratto per molte sere, per cui Hôïchi azzardò una domanda:
«Se non fosse possibile recitare l’intera storia, quale parte preferisce ascoltare l’augusto Signore?»
La voce della donna rispose:
«Racconta la storia della battaglia di Dan-no-ura, perché è la parte più commovente».
Allora Hôïchi mise fuori la voce e cantò la storia della battaglia sul mare salato, facendo risuonare il biwa in modo meraviglioso a imitazione degli sforzi dei rematori e del moto frenetico delle navi, del sibilo e dello schianto delle frecce, delle grida e del calpestio degli uomini, del cozzo delle lance sugli elmi, del tonfo dei caduti nelle onde agitate. E da ogni parte, nelle pause dell’esecuzione, poteva udire le voci dei presenti che sussurravano le sue lodi: «Che meraviglioso artista!», «Nella nostra provincia non si è mai sentito nessuno suonare come Hôïchi!».
Un nuovo coraggio lo animò, suonò e cantò ancor meglio di prima, e intorno a lui si diffuse un silenzio profondo e colmo di meraviglia. Ma quando alla fine arrivò a narrare il destino delle persone leali e indifese, la miseranda morte delle donne e dei bambini, e il tuffo nel mare profondo di Nii-no-Ama con l’infante imperiale tra le braccia, allora tutti gli ascoltatori emisero insieme un lungo grido di raccapriccio e di angoscia; poi gemettero e piansero in modo così forte e selvaggio, che il cantore cieco rabbrividì per la reazione violenta e dolorosa che aveva suscitato. A lungo continuarono i pianti e i lamenti. Poi un poco alla volta i tristi suoni si spensero, e nel grande silenzio che ne seguì Hôïchi udì nuovamente la voce della donna che riteneva fosse la Rojo.
La donna disse:
«Anche se ci avevano assicurato che eri un bravissimo esecutore di biwa e che non temevi confronti nella recitazione, non pensavamo che qualcuno fosse così bravo come stasera ci hai dimostrato. Il nostro Signore si compiace di mandarti a dire che ha intenzione di accordarti una ricompensa adeguata, ma desidera che tu venga a suonare e cantare davanti a lui ogni sera per le prossime sei sere, dopo di che probabilmente intraprenderà il suo augusto viaggio di ritorno. Quindi domani sera dovrai tornare qui alla stessa ora. Il samurai che ti ha guidato stasera tornerà da te.
«Di un’altra cosa mi è stato comandato d’informarti. Ti si chiede di non parlare con nessuno della tua visita qui per tutto il tempo in cui il nostro augusto signore si tratterrà ad Akamagaséki. Dal momento che sta viaggiando in incognito, ti ordina di non far parola di tutto questo. E ora sei libero di tornare al tempio».
Dopo che Hôïchi ebbe espresso i dovuti ringraziamenti, la donna lo prese per mano e lo condusse all’entrata della casa, dove il samurai che gli aveva fatto da guida all’andata stava aspettando per riaccompagnarlo a casa. Lo condusse fino alla veranda sul retro del tempio e lo salutò.
Quando Hôïchi arrivò, stava per albeggiare, ma la sua assenza dal tempio non era stata notata perché il sacerdote, tornato a un’ora molto tarda, aveva pensato che stesse già dormendo.
Durante il giorno Hôïchi riuscì a riposarsi un po’ e non raccontò a nessuno la sua strana avventura. La sera seguente il samurai tornò da lui e lo condusse dall’augusta assemblea, dove recitò di nuovo ottenendo il successo della sua esibizione precedente. Ma quella seconda sera la sua assenza dal tempio fu notata, e dopo che ebbe fatto ritorno il mattino successivo, fu chiamato dal sacerdote che gli disse in tono di gentile rimprovero:
«Siamo stati molto in pena per te, amato Hôïchi. Uscire così tardi alla sera, cieco come sei e da solo è pericoloso. Perché te ne sei andato senza dircelo? Avrei potuto ordinare a un servitore di accompagnarti. E dove sei stato?»
Hôïchi rispose evasivamente:
«Ti chiedo perdono, mio gentile amico! Dovevo occuparmi di una questione privata e non potevo sistemare la faccenda in un’ora diversa».
Il sacerdote fu sorpreso più che dispiaciuto per la reticenza di Hôïchi: sentiva che non era naturale e aveva il sospetto che stesse succedendo qualcosa di brutto. Temeva che il ragazzo cieco fosse vittima di un sortilegio o fosse incantato da uno spirito maligno. Non gli chiese altro, ma prese da parte gli uomini che servivano al tempio e diede loro istruzioni perché controllassero i movimenti di Hôïchi e lo seguissero se avesse lasciato il tempio dopo che si era fatto buio. Proprio la sera seguente Hôïchi fu visto lasciare il tempio. Allora i servitori accesero subito le lanterne e lo seguirono. Ma era una notte piovosa e molto scura, per cui prima che potessero lasciare il tempio e uscire in strada, Hôïchi era scomparso. Evidentemente aveva camminato molto in fretta, cosa strana, stante il fatto che era cieco e la strada era in cattivo stato. Gli uomini si affrettarono per le strade, chiedendo a tutte le case a cui Hôïchi era solito far visita, ma nessuno poté fornire sue notizie. Infine, mentre facevano ritorno al tempio per la strada lungo il fiume, sobbalzarono all’udire il suono di un biwa suonato con energia nel cimitero di Amidaji. A parte alcuni fuochi fatui – che erano soliti levarsi durante le notti buie – in quella direzione tutto era oscurità. Subito gli uomini si affrettarono verso il cimitero dove, con l’aiuto delle lanterne, scoprirono Hôïchi che, seduto da solo sotto la pioggia davanti al mausoleo di Antoku Tennô, suonava il biwa e cantava ad alta voce la storia della battaglia di Dan-no-ura. E davanti a lui e dovunque sopra le tombe, i fuochi dei morti ardevano come candele. Nessuno aveva mai visto prima un così gran numero di Oni-bi comparire alla vista di un mortale…
«Hôïchi San! Hôïchi San!» gridarono i servitori «Sei stregato! Hôïchi San!»
Ma sembrava che il cieco non li udisse. Faceva risuonare, echeggiare, squillare il biwa; con energia sempre crescente cantava il racconto della battaglia di Dan-no-ura.
Lo afferrarono, gli gridarono:
«Hôïchi San! Hôïchi San! Vieni subito via con noi!»
In tono di rimprovero Hôïchi disse loro:
«Non sarà tollerato che mi interrompiate così davanti a questo augusto consesso».
Allora, malgrado la situazione soprannaturale, i servitori non riuscirono a trattenere le risate. Era stato certamente stregato, per cui lo afferrarono, lo fecero alzare in piedi e lo riportarono al tempio a viva forza. Qui giunto, per ordine del sacerdote lo liberarono dai vestiti bagnati. Poi il sacerdote insistette perché Hôïchi gli fornisse una spiegazione esauriente del suo strano comportamento.
Hôïchi esitò a lungo prima di parlare. Ma infine, resosi conto che la sua condotta aveva veramente preoccupato e fatto arrabbiare il buon sacerdote, decise di abbandonare ogni reticenza e gli raccontò tutto quello che gli era successo fin dalla prima visita del samurai.
Il sacerdote disse.
«Hôïchi, mio povero amico, ti trovi in grave pericolo! È stata una sfortuna che tu non mi abbia raccontato tutto prima! La tua straordinaria abilità nella musica ti ha messo in un bel guaio. Sappi fin d’ora che non sei stato in una casa, ma hai passato le sere e le notti al cimitero, presso le tombe degli Heiké, ed è stato proprio davanti alla tomba di Antoku Tennô che la nostra gente ti ha trovato stanotte, mentre stavi seduto sotto la pioggia. Tutto quello che hai visto e sentito è stata un’illusione, tranne la chiamata dei morti. Non appena hai obbedito, ti sei messo in loro potere. Se obbedirai ancora ai morti dopo quello che è successo, ti faranno a pezzi. Ma comunque sia, prima o poi ti distruggeranno. Non posso restare con te questa sera: sono chiamato a compiere un altro servizio. Ma prima che me ne vada, bisogna che protegga il tuo corpo scrivendo testi sacri su di esso».
Prima del tramonto il sacerdote e i suoi accoliti spogliarono Hôïchi. Poi, con i loro pennelli da scrittura, gli tracciarono sul petto e sulla schiena, sulle mani, la faccia e il collo, su braccia e gambe, su mani e piedi, addirittura sulle piante dei piedi, e su tutte le parti del corpo, il testo del sacro sutra chiamato Hannya-Shin-Kyo. Fatto ciò, il sacerdote istruì Hôïchi e disse:
«Stasera, appena me ne sarò andato, dovrai sederti sulla veranda e aspettare. Sarai chiamato. Ma quando ciò succederà, non rispondere. Non dire nulla. Rimani in silenzio come se fossi immerso nella meditazione. Se ti muovi o fai il minimo rumore, sarai fatto a pezzi. Non spaventarti e non pensare di chiedere aiuto, poiché non c’è aiuto che ti possa salvare. Se fai esattamente quanto ti dico, il pericolo si allontanerà, e non avrai più nulla da temere».
Quando fu scesa l’oscurità, il sacerdote uscì con gli accoliti, e Hôïchi sedette sulla veranda secondo le istruzioni ricevute. Posò il biwa accanto a sé sull’impiantito e, assunto l’atteggiamento della meditazione, restò in perfetto silenzio, stando attento di non tossire né respirare in modo che lo si potesse sentire. Rimase in quella posizione per ore.
Infine sentì dei passi che si avvicinavano dalla strada. Oltrepassarono il cancello, attraversarono il giardino, si avvicinarono alla veranda e si arrestarono proprio davanti ad essa.
«Hôïchi!» chiamò una voce profonda. Ma il ragazzo trattenne il respiro e continuò a stare seduto immobile.
«Hôïchi!» chiamò per la seconda volta la voce in tono severo.
Non avendo ricevuto risposta, chiamò per la terza volta con rabbia:
«Hôïchi!»
Hôïchi rimase silenzioso come una pietra. Allora la voce mormorò:
«Nessuna risposta. Non è possibile. Devo scoprire dov’è il ragazzo».
Si sentì il rumore di passi pesanti che salivano sulla veranda e si fermavano accanto a Hôïchi. Per interminabili minuti, durante i quali Hôïchi sentiva il corpo tremare per i battiti furiosi del suo cuore, vi fu un silenzio di morte.
Alla fine la voce aspra mormorò accanto a lui:
«Vedo il biwa, ma del suo suonatore non vedo che le due orecchie! Ecco perché non rispondeva: non ha bocca per rispondere, di lui non sono rimaste che le orecchie… Ebbene porterò al mio Signore queste orecchie come dimostrazione che i suoi augusti ordini sono stati eseguiti con la massima rapidità».
In quel momento Hôïchi si sentì afferrare e strappar via le orecchie da ferree dita! Il dolore fu immenso, ma non emise un solo grido. Il rumore dei passi pesanti si fece nuovamente sentire sulla veranda, arrivò in giardino, uscì in strada, scomparve. Il ragazzo cieco sentiva qualcosa di caldo che colava da entrambi i lati delle orecchie, ma non osava sollevare le mani…
Prima del sorgere del sole il sacerdote fu di ritorno. Si diresse subito alla veranda, vi salì e sdrucciolò su qualcosa di viscido che gli fece lanciare un grido di orrore quando alla luce della lanterna vide che quella cosa viscida era sangue. Poi intravide Hôïchi seduto in attitudine di meditazione, con il sangue che ancora gli stillava dalle ferite.
«Mio povero Hôïchi!» gridò il sacerdote con un sussulto. «Che è mai questo? Ti hanno ferito?»
Sentendo quella voce amica, il ragazzo cieco si sentì al sicuro, scoppiò in lacrime e piangendo raccontò al sacerdote le vicende della notte passata.
«Mio povero Hôïchi!» esclamò il sacerdote. «Che terribile, imperdonabile errore ho commesso! Ho scritto i testi sacri su ogni parte del tuo corpo, ma ho trascurato le orecchie! Ho affidato ai miei accoliti quella parte del lavoro, ed è stata una gravissima mancanza da parte mia non aver controllato che l’avessero eseguita! Ma ormai quel ch’è fatto è fatto. Consolati, amico mio. Il pericolo è passato. Non sarai mai più disturbato da simili visitatori».
Con l’aiuto di un bravo dottore le ferite di Hôïchi guarirono presto. La storia della sua incredibile avventura si sparse ovunque, e ben presto lo rese celebre. Molti nobili si recarono ad Akamagaséki per assistere alle sue esibizioni e gli donarono grosse somme di denaro, tanto che presto diventò ricco. Ma da quando visse quell’avventura, fu chiamato sempre e soltanto con l’appellativo di Mimi-nashi-Hôïchi: «Hôïchi il Senza-Orecchie».

FINE

Immagine tratta dal sito: http://blogs.ya.com .

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