Leggende Orientali – LA STORIA DEL PRINCIPE YAMATO TAKE

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Leggenda dal Giappone

Tradotta da Dario55

LA STORIA DEL PRINCIPE YAMATO TAKE

L’emblema del grande Impero giapponese è composto da tre oggetti preziosi che sono stati considerati sacri e conservati gelosamente fin da tempi immemorabili. Sono lo Yatano-no-Kagami ossia lo Specchio di Yata, lo Yasakami-no-Magatama ossia il Gioiello di Yasakami e il Murakumo-no-Tsurugi ossia la Spada di Murakumo.
Di questi tre tesori dell’Impero, la spada di Murakumo, poi conosciuta con il nome di Kusanagi-no-Tsurugi, ossia la “Spada che falcia l’erba”, è considerato il più prezioso e più degno di essere onorato in quanto è il simbolo della forza di questa nazione di guerrieri e il talismano dell’invincibilità per l’Imperatore quando lo reca consacrato nel tempio dei suoi antenati.
Circa duemila anni or sono questa spada era custodita nei templi di Ise, i templi dedicati al culto di Amaterasu, la grande e bella Dea del Sole da cui si dice discendano gli Imperatori del Giappone.
Questa è una storia di avventura e di audacia cavalleresca che spiega perché il nome della spada fu cambiato da Murakumo a Kusanagi, la “Spada che falcia l’erba”.
Un tempo, tantissimi anni fa, nacque un figlio all’Imperatore Keiko, il dodicesimo in linea di discendenza a partire dal grande Jimmu, il fondatore della dinastia giapponese. Questo principe era il secondo figlio dell’Imperatore Keiko, e gli fu dato il nome di Yamato. Fin dall’infanzia diede prova di notevole forza, saggezza e coraggio, e il padre notò con orgoglio che prometteva grandi cose e lo amò sempre più del figlio maggiore.
Ora, quando il principe Yamato fu diventato adulto (nell’antico Giappone si considerava che un ragazzo fosse diventato adulto quando entrava nel sedicesimo anno di età), nel regno scorrazzava una banda di fuorilegge i cui capi erano due fratelli, Kumaso e Takeru. Costoro sembravano godere nel ribellarsi al Re, nell’infrangere le leggi e nello sfidare ogni autorità.
Alla fine re Keiko ordinò al giovane figlio principe Yamato di sconfiggere i banditi e, se possibile, di liberare il paese dalle loro vite malvagie. Il principe Yamato aveva solo sedici anni, ma era adulto secondo la legge e sebbene fosse così giovane, possedeva già lo spirito intrepido di un guerriero maturo e non sapeva cosa fosse la paura. Non c’era uomo che potesse rivaleggiare con lui per coraggio e azioni audaci, e il principe ricevette il comando dal padre con la più grande gioia.
Si preparò dunque per partire. All’interno del palazzo regnava una grande agitazione mentre il principe e i fedeli uomini del suo seguito si radunarono e si prepararono per la spedizione, lucidando le armature e indossandole. Prima di lasciare la corte del padre, il principe si recò a pregare ai templi di Ise e a prendere congedo dalla zia, la principessa Yamato, dal momento che sentiva il cuore un po’ oppresso al pensiero dei pericoli che gli stavano di fronte e aveva bisogno della protezione della sua antenata, Amaterasu, la Dea del Sole. La principessa zia uscì per accoglierlo cordialmente e si congratulò con lui per l’importante missione che aveva ricevuto dal padre. Poi gli diede una delle sue vesti sfarzose come ricordo perché gli portasse fortuna e gli disse che gli sarebbe sicuramente stata utile durante quell’avventura. Quindi gli augurò tutto il successo per la sua impresa e lo esortò a partire.
Il giovane principe s’inchinò profondamente dinanzi alla zia e ricevette il suo gentile dono con molto piacere e tanti rispettosi inchini.
«Ora voglio mettermi in cammino», disse il principe e fatto ritorno al palazzo, si mise a capo delle sue truppe. Sostenuto dalla benedizione della zia, si sentiva pronto per qualsiasi cosa potesse accadere e marciando attraverso il paese, in pochi giorni arrivò all’isola meridionale di Kiushiu, dove abitavano i banditi. Quindi, senza affrettarsi ma con sicurezza, diresse il suo cammino verso il quartier generale dei due capibanda Kumaso e Takeru. A un certo punto però si trovò in grandi difficoltà perché il paese era estremamente selvaggio e accidentato. Le montagne erano alte e scoscese, le valli oscure e profonde, e alberi e macigni bloccavano la strada e arrestavano l’avanzata dei suoi armati. A un certo punto fu impossibile proseguire.
Malgrado la sua giovane età il principe possedeva la saggezza degli anni e, vedendo che era inutile tentare e guidare oltre i suoi uomini, disse fra sé:
«Cercare di combattere una battaglia in questa terra impraticabile e sconosciuta ai miei uomini rende più difficile il mio compito. Non possiamo liberare le strade e combattere. È più saggio ricorrere a uno stratagemma e piombare sui nemici mentre non se lo aspettano. Così potrò ucciderli senza fatica».
Fece dunque fermare l’esercito fuori della strada. Poi chiese alla moglie, la principessa Ototachibana, che lo aveva accompagnato, di portargli la veste che gli aveva regalato la zia, la sacerdotessa di Ise, e di aiutarlo ad abbigliarsi come una donna. Con l’aiuto della moglie indossò la veste e si pettinò i capelli all’indietro finché gli scesero sulle spalle. Poi Ototachibana gli portò il proprio pettine che egli sistemò nei capelli neri, ornandosi infine con file di gioielli come quelli che aveva visto nelle pitture. Dopo che ebbe terminato quella insolita toeletta, Ototachibana gli porse il proprio specchio. Lui sorrise vedendosi, tanto il travestimento era perfetto.
Stentava a riconoscersi talmente era cambiato: ogni traccia del guerriero era scomparsa e dalla superficie lucida dello specchio una bella ragazza ricambiava il suo sguardo.
E così, completamente travestito, si avviò da solo verso l’accampamento nemico. Nelle pieghe dell’abito di seta, vicino al suo saldo cuore, stava nascosto un pugnale affilato.
I due capi Kumaso e Takeru se ne stavano seduti nella propria tenda e riposavano nel fresco della sera mentre il principe si avvicinava. Discutevano delle notizie che avevano recato loro di recente, cioè che il figlio del Re era penetrato nel loro paese con un esercito numeroso, deciso a sterminare la loro banda. La fama del giovane guerriero era giunta alle loro orecchie e per la prima volta nelle loro malvagie vite provavano paura. In una pausa del discorso alzarono lo sguardo e attraverso l’entrata della tenda videro una bella donna abbigliata con ricche vesti venire verso di loro. Nella dolcezza del crepuscolo era come l’apparizione della bellezza. Non si sognarono neppure per un attimo che si trattasse di quel nemico tanto temuto che adesso stava di fronte a loro in quel travestimento.
«Che splendida donna! Da dove sarà venuta?» disse stupefatto Kumaso, dimenticandosi della guerra, della riunione e di tutto quanto non appena vide la graziosa intrusa.
Chiamò con un cenno il principe travestito e lo invitò a sedersi e a servirgli del vino. Yamato Take sentì il cuore gonfiarsi di gioia quando capì che il suo piano stava avendo successo. Tuttavia dissimulò abilmente e assumendo una dolce aria di timidezza si avvicinò al capo ribelle a lenti passi e con occhi che guardavano come quelli di un cerbiatto impaurito. Distratto dal fascino della ragazza, Kumaso bevve una coppa di vino dopo l’altra per il piacere di vederla mentre glie la serviva, finché fu completamente sopraffatto dalla quantità che ne aveva bevuto.
Era il momento che il principe coraggioso stava aspettando. Buttò a terra l’anfora del vino, afferrò Kumaso ormai ubriaco e stordito e lo pugnalò di sorpresa a morte con il coltello che aveva nascosto nel petto.
Takeru, il fratello del bandito, rimase terrorizzato non appena vide quello che era successo e tentò di fuggire, ma il principe Yamato fu più veloce di lui. Prima che potesse tentare di raggiungere l’uscita della tenda, il principe lo raggiunse e afferrò i suoi vestiti con una mano di ferro. Davanti agli occhi del bandito balenò una spada e in un attimo cadde a terra trafitto a morte, ma non ancora morto.
«Aspetta» disse con un filo di voce il fuorilegge in agonia, e afferrò la mano del principe.
Yamato allentò un po’ la stretta e disse:
«Perché dovrei aspettare, razza di delinquente?»
Il bandito si sollevò leggermente pieno di paura e disse:
«Dimmi da dove vieni e a chi ho l’onore di rivolgere la parola. Finora ho creduto che io e mio fratello fossimo gli uomini più forti di questo paese e che nessuno potesse avere la meglio su di noi. Tu sola hai violato la nostra fortezza, tu sola sei venuta contro di noi e ci hai uccisi. Sono certo che tu non sei una mortale”.
Il giovane principe, con un sorriso di superiorità, rispose:
«Io sono il figlio del Re e il mio nome è Yamato. Mio padre mi ha mandato per vendicare i vostri crimini con la vostra morte e con quella di tutti i vostri compagni. Nessuno compirà più rapine e omicidi tra il nostro popolo terrorizzato!»
Così dicendo il principe affondò la spada insanguinata nella testa del bandito ribelle.
«Ah» si sforzò di dire nell’ultimo respiro il moribondo «ho sentito tante volte parlare di te. Sei un uomo molto forte e ci hai battuti con facilità. Permetti che ti dia un nuovo nome. D’ora in poi dovrai chiamarti Yamato Take. Ti trasmetto in eredità questo titolo perché sei il più valoroso uomo di Yamato».
Dopo avere pronunciato queste nobili parole, Takeru cadde e morì.

Il principe, che aveva annientanto con tanto successo i nemici del padre, si preparò a ritornare alla capitale. Sulla via del ritorno attraversò la provincia di Idum. Qui s’imbatté in un altro fuorilegge di nome Idzumo Takeru. Il principe sapeva che costui aveva fatto molto male al paese e ricorse nuovamente a uno stratagemma. Si finse amico del bandito presentandosi con un falso nome. Ciò fatto, costruì una spada di legno e la legò strettamente al manico della sua potente spada. Poi se le affibbiò al fianco in attesa dell’occasione propizia per scontrarsi con il terzo bandito Takeru.
Invitò Takeru sulla sponda del fiume Hinokawa e riuscì a convincerlo a nuotare con lui nelle acque del fiume per trovare un po’ di refrigerio.
Era un caldo giorno di estate, e quindi il bandito non ebbe niente in contrario a fare un tuffo nel fiume. Mentre il suo nemico stava nuotando sott’acqua, il principe cambiò direzione e si portò velocemente a riva. Senza farsi vedere, sostituì l’affilata spada d’acciaio di Takeru con la propria spada di legno.
Poco dopo il bandito, che non si era accorto di niente, ritornò sulla spiagga e si rivestì. Subito dopo il principe si fece avanti e lo sfidò a incrociare le spade per provare il loro valore dicendo:
«Vediamo chi sa maneggiare meglio la spada fra noi due!»
Il bandito accettò con piacere e sicuro di vincere, dato che in quella provincia era un celebre spadaccino e soprattutto non sapeva che avversario aveva di fronte. Afferrò rapidamente quella che credeva fosse la sua spada e si mise in posizione di difesa. Ma mal gliene incorse! La sua spada era quella di legno che gli aveva dato a sua insaputa il giovane principe, e invano Takeru tentò di sfoderarla: era completamente bloccata, non c’era verso di smuoverla. Malgrado tutti i suoi sforzi, la spada non si muoveva di un millimetro, e non aveva modo di usarla. Yamato Take si rese conto che il nemico era in suo potere, alzò la spada che aveva sottratto a Takeru, lo abbatté, lo uccise e gli tagliò la testa.

Fu così che usando a volte la saggezza, a volte la forza e a volte l’astuzia, il principe riuscì a sconfiggere tutti i nemici del Re uno dopo l’altro e a riportare la pace e la serenità nel paese e tra la popolazione.
Quando fece ritorno alla capitale, il Re lo lodò per le sue imprese valorose e fece organizzare una festa al palazzo per il suo ritorno e per onorarlo con molti doni preziosi.
Da quel momento il Re amò il principe come nessun altro e decretò che Yamato Take non si allontanasse mai dal suo fianco. Disse che il figlio per lui era più prezioso di una delle sue braccia.

Ma il principe non era destinato a vivere a lungo una vita ritirata. Quando fu quasi trentenne, arrivò la notizia che gli Ainu, un popolo aborigeno delle isole del Giappone, sottomesso e scacciato verso nord, si erano ribellati nelle province orientali, causando gravi danni a chi aveva osato opporsi a loro. Il Re aveva deciso che si doveva inviare un esercito per affrontarli e ridurli alla ragione. Ma chi avrebbe condotto gli uomini?
Subito il principe Yamato Take si offrì per andare e sottomettere quei ribelli. Il Re, che amava il principe e non si sarebbe separato da lui neppure per un giorno, era molto riluttante a lasciare che andasse ad affrontare una spedizione così pericolosa. Ma in tutto l’esercito non c’era un solo guerriero così potente e coraggioso come il principe suo figlio, e quindi, non sapendo quale altra decisione prendere, pur di malavoglia acconsentì alla preghiera di Yamato
Quando per il principe arrivò il momento di partire, il Re gli diede una lancia che si chiamava “Lancia di Otto Braccia dell’Albero Sacro”, poiché era fatta con il legno del sacro albero, e gli ordinò di partire e di sottomettere i Barbari dell’Est (così erano denominati gli Ainu).
La “Lancia di Otto Braccia dell’Albero Sacro” a quei tempi era un simbolo e costituiva un incitamento per i guerrieri, tanto quanto ai nostri giorni lo è per l’esercito la bandiera della propria patria.
Con il massimo rispetto e inchinandosi fino a terra il principe ricevette la lancia dalle mani del Re, lasciò la capitale e marciò con il suo esercito verso est. Durante la marcia non mancò di visitare e di rendere onore ai templi di Ise. Sua zia, la principessa Yamato e gran sacerdotessa, lo accolse e lo onorò. Era colei che gli aveva donato quel vestito che gli aveva dato tanto vantaggio nello sconfiggere i suoi nemici nell’est del paese.
Le parlò e le raccontò quello che gli era successo, aggiunse che il suo dono era stato fondamentale per il successo dell’impresa precedente e la ringraziò con tutto il cuore. Quando lei seppe la notizia che il nipote era nuovamente in viaggio per combattere i nemici del padre, entrò nel tempio e ne uscì recando una spada e uno splendido sacchetto (che lei stessa aveva cucito) pieno di pietre focaie, quelle che all’epoca la gente usava al posto dei fiammiferi per accendere il fuoco. Presentò queste cose al nipote come dono per la partenza.
La spada era nientemeno che la spada di Murakumo, uno dei tre tesori sacri che fanno parte delle insegne della Casa Imperiale del Giappone. Era il più prezioso portafortuna che avrebbe potuto dare al nipote, e gli impose di usarlo nel momento in cui più che mai ne avrebbe avuto bisogno.
Yamato Take salutò quindi velocemente la zia e mettendosi ancora una volta a capo dei suoi uomini, marciò verso l’estremo Est e attraverso la provincia di Owari, finché raggiunse la provincia di Suruga. Qui il governatore accolse il principe molto cordialmente e lo intrattenne in modo regale con grandi feste. Quando furono finite, il governatore disse al suo ospite che quella terra era famosa per un magnifico cervo e propose una caccia al cervo per divertire il principe, il quale fu completamente ingannato dalla cordialità dell’ospite – che in realtà era del tutto simulata – e accettò con piacere di partecipare alla caccia.
Allora il governatore condusse il principe fino a una pianura ampia e selvaggia, dove l’erba cresceva alta e molto folta. Ignorando completamente che il governatore gli aveva teso una trappola perché stava tramando la sua morte, il principe prese a cavalcare per catturare il cervo, finché all’improvviso con sorpresa e sgomento vide fiamme e fumo innalzarsi dal muro di erba che gli stava davanti. Subito conscio del pericolo, tentò di ritirarsi, ma non appena ebbe fatto girare il cavallo nella direzione opposta, vide che anche da quella parte la pianura era in fiamme.

Yamato Take salvato dalla spada

Nello stesso tempo anche l’erba a destra e a sinistra del principe s’incendiò, e il fuoco cominciò ad allargarsi rapidamente attorno a lui da tutti i lati. Si guardò attorno cercando una via di scampo. Non ce n’erano. Era circondato dal fuoco.
«Questa caccia al cervo era dunque soltanto un astuto stratagemma del nemico!» disse il principe guardando tutto intorno le fiamme che crepitavano e si precipitavano contro di lui da tutti i lati. «Che stupido sono stato a farmi attirare in questa trappola come un animale selvatico!» e digrignò i denti per la rabbia al pensiero del tradimento del governatore.
Per quanto la situazione fosse pericolosa, il principe non era per nulla turbato. In quello spaventoso frangente si ricordò dei doni che la zia gli aveva dato quando era partito e gli sembrò che avesse predetto con spirito profetico quell’ora di bisogno. Aprì con calma il sacchetto con le pietre focaie e diede fuoco all’erba vicino a lui. Poi sguainò la spada di Murakumo e si mise all’opera per abbattere con la massima velocità l’erba da entrambi i lati. Aveva deciso di morire lottando per la sua vita, se fosse stato necessario, piuttosto che starsene inattivo ad aspettare che la morte lo raggiungesse.
Strano a dirsi, il vento cominciò a cambiare e a soffiare in direzione opposta, spingendo molto lontano quella minacciosa parete di erba in fiamme che fino a quel momento aveva minacciato di arrivare fino a lui. Cosicché il principe, senza neanche un graffio sul corpo o un capello bruciato, sopravvisse per riferire il racconto della sua prodigiosa fuga, mentre il vento, fattosi impetuoso, raggiunse il governatore che perì tra le fiamme che aveva appiccato per uccidere Yamato Take.
Il principe attribuì tutto il merito della sua fuga al potere della spada di Murakumo e alla protezione di Amaterasu, la Dea del Sole di Ise, che governa il vento e gli altri elementi e garantisce la salvezza a tutti coloro che la implorano nel momento del pericolo. Alzò la preziosa spada e la sollevò sopra il suo capo molte volte in segno di grande rispetto, e decise di cambiarle il nome in Kusanagi-no-Tsurugi, ossia la “Spada che falcia l’erba”, mentre il luogo in cui aveva dato fuoco all’erba intorno a lui ed era sfuggito alla morte nella prateria in fiamme si sarebbe chiamato Yaidzu. Ai giorni nostri un punto lungo il Tokaido Shinkansen, la ferrovia ad alta velocità che collega Tokyo a Osaka, si chiama Yaidzu, e si dice che sia proprio il luogo in cui si svolse quel terribile evento.
E così il coraggioso principe Yamato Take riuscì a sfuggire alla trappola tesagli dal suo nemico. Fu pieno di risorse e di coraggio e riuscì a soggiogare definitivamente tutti i propri nemici. Lasciando Yaidzu marciò verso est e arrivò alla spiaggia di Idzu, da dove contava di far vela per Kadzusa.

In tutte queste avventure e pericoli era stato seguito dalla sua fedele e amorosa moglie, la principessa Ototachibana. Per amore di lui non faceva alcun conto delle fatiche dei lunghi viaggi e dei pericoli della guerra, e il suo amore per il marito guerriero era così grande che si sentiva abbondantemente ripagata per tutto quel vagabondare se poteva porgergli la spada quando usciva in battaglia o soddisfare ai suoi desideri quando ritornava stanco all’accampamento.
Ma il cuore del principe era pieno di pensieri di guerra e di conquista e si curava poco della fedele Ototachibana. Per gli sforzi dei lunghi viaggi e per la pena e l’afflizione che le procurava la freddezza del suo signore verso di lei, la sua bellezza era svanita e la sua pelle d’avorio era abbronzata dal sole, tanto che il principe un giorno le disse che il suo posto era a palazzo dietro i paraventi di casa e non insieme a lui sulla strada della guerra. Ma Ototachibana, malgrado le mortificazioni e l’indifferenza del marito, non ebbe il coraggio di abbandonarlo. Forse però sarebbe stato meglio per lei se lo avesse fatto, poiché sulla strada di Idzu, mentre si dirigevano a Owari, poco mancò che il suo cuore scoppiasse.
In quel luogo, in un palazzo ombreggiato da pini e accanto a grandiosi cancelli, abitava la principessa Miyadzu, bella come un fiore di ciliegio nella timida rugiada di un mattino di primavera. Le sue vesti erano delicate e luminose, e la sua pelle era candida come la neve, perché mai aveva saputo cosa significhi la fatica sulla strada del dovere o il cammino sotto il caldo sole dell’estate. Il principe si vergognò della moglie abbronzata dal sole nei suoi vestiti sporchi per i viaggi e le ordinò di restare indietro mentre faceva visita alla principessa Miyadzu. Un giorno dopo l’altro trascorreva le ore nei giardini e dentro il palazzo della sua nuova amica, pensando solo al piacere e preoccupandosi ben poco della sua povera moglie che era rimasta nell’accampamento a piangere sulle sventure della sua vita. Ma tanta era la sua fedeltà e la sua sopportazione, che mai permise che un rimprovero uscisse dalle sue labbra o che una ruga sciupasse la dolce malinconia del suo viso, ed era sempre pronta a dare il benvenuto con un sorriso al suo sposo che faceva ritorno o ad accompagnarlo ogni volta che se ne andava.
Alla fine venne il giorno in cui il principe Yamato Take dovette partire per Idzu e attraversare il mare verso Kadzusa, ed egli ordinò alla moglie di seguirlo nel corteo dei servitori mentre si recava a porgere un cerimonioso addio alla principessa Miyadzu. Lei uscì a salutarlo vestita con abiti sgargianti, tanto che sembrava ancora più bella, e quando Yamato Take la vide dimenticò la moglie, il dovere e ogni altra cosa all’infuori di quell’ozioso presente e assicurò che sarebbe ritornato a Owari e l’avrebbe sposata quando la guerra fosse finita. Quando alzò gli occhi dopo avere pronunciato queste parole, il suo sguardo incontrò i grandi e lunghi occhi ovali di Ototachibana che lo fissavano intensamente con una indicibile tristezza e meraviglia e capì che si era comportato male, ma indurì il suo cuore e cavalcò via, preoccupandosi poco del dolore che le aveva causato.
Quando giunsero alla spiaggia di Idzu, i suoi uomini cercarono delle imbarcazioni per attraversare lo stretto fino a Kadzusa, ma era difficile trovarne abbastanza perché i soldati potessero imbarcarsi. Allora il principe si levò in piedi sulla spiaggia e, con l’orgoglio del suo vigore, li schernì dicendo:
«Questo non è il mare! È solo un ruscello! Perché avete bisogno di tante navi? Se volessi, potrei attraversarlo con un salto».
Quando infine furono tutti imbarcati e stavano tranquillamente attraversando lo stretto, il cielo improvvisamente si riempì di nuvole e scoppiò una tremenda tempesta. Le onde si sollevavano alte come montagne, il vento urlava, balenavano i lampi ed esplodevano i tuoni. La barca con a bordo Ototachibana e il principe con i suoi uomini fu scaraventata dalla cresta di un’onda a un’altra, finché sembrò che ogni momento fosse l’ultimo e dovessero essere tutti inghiottiti dal mare infuriato. Perché Kin Jin, il Drago Re del Mare, aveva sentito le parole di scherno di Yamato Take, si era infuriato e aveva scatenato quella terribile tempesta per mostrare al principe quanto può essere terribile il mare anche se lui lo considerava un ruscello.
L’equipaggio terrorizzato ammainò le vele e si affannò al timone facendo tutto il possibile per salvarsi la vita. Ma tutto fu inutile. La tempesta sembrava farsi sempre più violenta, e tutti si sentirono perduti. Allora la fedele Ototachibana si alzò e, dimenticando tutte le pene che il marito le aveva dato, dimenticando anche che si era stancato di lei, con il solo grande desiderio di salvargli la vita, decise di sacrificare la propria per salvarlo dalla morte, se fosse stato possibile.
Mentre le onde si avventavano sulla nave e il vento mulinava furioso intorno ad essa, si alzò e disse:
«Certo tutto questo è avvenuto perché il principe ha fatto infuriare Rin Jin, il Dio del Mare, con i suoi dileggi. Se è così, io, Ototachibana, placherò il furore del Dio del Mare che non desidera altro che la morte di mio marito!»
Poi, rivolgendosi al mare, disse:
«Prenderò io il posto di sua altezza Yamato Take. Sarò io a gettarmi nelle tue offese profondità e darò la mia vita in cambio della sua. Ma tu esaudiscimi e conducilo salvo fino alla spiaggia di Kadzusa».
Con queste parole si gettò rapidamente nel mare tuonante, e i gorghi la trascinarono via finché sparì alla vista. Nello stesso tempo, strano a dirsi, la tempesta cessò, il mare si fece calmo e liscio come le stuoie su cui sedevano gli spettatori stupefatti. Gli dei del mare si erano placati, il tempo si schiariva e il sole splendeva come in un giorno d’estate.
Ben presto Yamato Take raggiunse la sponda e prese terra senza pericolo, proprio come aveva implorato sua moglie Ototachibana. Il suo valore in guerra fu stupefacente e in breve riuscì ad avere la meglio sui Barbari dell’Est, gli Ainu.
Attribuì interamente il suo sbarco sicuro alla fedeltà della moglie che si era sacrificata con tanta prontezza e tanto amore nell’ora del supremo pericolo. Si sentiva il cuore intenerito al suo ricordo e non avrebbe mai permesso che il suo ricordo lo lasciasse. Aveva imparato troppo tardi ad apprezzare la bontà del suo cuore e la grandezza del suo amore per lui.
Sulla via del ritorno giunse al valico di Usui Toge, vi si arrampicò e ammirò il meraviglioso panorama che si spalancava davanti ai suoi occhi. Da quella grande altezza tutto il paese si stendeva di fronte a lui: un immenso panorama di montagne, boschi e vallate, con fiumi che si snodavano come nastri d’argento e, lontanissimo, il mare che brillava come una nebbia lucente, quel mare dove Ototachibana aveva sacrificato la vita per lui. Girandosi in direzione del mare, stese le braccia e pensando al suo amore che aveva disprezzato e alla propria infedeltà, il suo cuore fu sommerso dalla pena e gridò tra le lacrime:
«Azuma, Azuma, Ya!» [Moglie mia, moglie mia!]. E ancora oggi un quartiere di Tokio si chiama Azuma in ricordo delle parole del principe Yamato Take e per indicare il luogo in cui la sua fedele sposa si gettò in mare per salvargli la vita. Così, anche se in vita la principessa Ototachibana fu infelice, la storia mantiene viva la sua memoria e il racconto della sua morte eroica e disinteressata non sarà mai dimenticato.

Yamato Take contro il serpente

Yamato Take aveva adempiuto gli ordini del padre, aveva soggiogato tutti i ribelli e riportato la pace nel paese, dopo averlo liberato da tutti i banditi e i nemici. La sua fama era grande, perché in tutto il paese non c’era nessuno che potesse resistergli, tanto era potente in battaglia e saggio in Consiglio.
Stava per tornare direttamente a casa per la via da cui era venuto, quando gli balzò in mente il pensiero che sarebbe stato più interessante seguire un’altra strada, e quindi attraversò la provincia di Owari e arrivò alla provincia di Omi.
Quando fu giunto a Omi, trovò la gente in uno stato di grande agitazione e paura. In molte delle case accanto a cui passava vedeva segni di lutto e udiva alti lamenti. Indagando sui motivi di tutto ciò, venne a sapere che un terribile mostro aveva fatto la sua comparsa tra le montagne e ogni giorno scendeva a valle e girava da un villaggio all’altro divorando chiunque riuscisse a catturare. Molte case erano state devastate e gli uomini avevano paura di uscire per andare a lavorare nei campi e le donne per andare al fiume a mondare il riso.

Quando Yamato Take sentì questo, montò su tutte le furie e disse con ferocia:
«Dall’estremità occidentale di Kiushiu all’angolo orientale di Yezo ho soggiogato tutti i nemici del Re! Nessuno può avere il coraggio di infrangere la legge o di ribellarsi al Re! E invece scopro che un mostro crudele ha osato venire ad abitare qui, così vicino alla capitale, e spargere il terrore fra i sudditi del Re. Ebbene, non godrà più a lungo del piacere di divorare persone innocenti. Partirò immediatamente e lo ucciderò».
Detto questo, si avviò verso il monte Ibuki, dove gli avevano detto che viveva il mostro. Si arrampicò per un bel tratto, quando improvvisamente, mentre stava percorrendo un sentiero, un serpente mostruoso si parò davanti a lui e gli sbarrò la strada.
«Questo dev’essere il mostro» disse il principe «Non ho bisogno della spada per un serpente: posso ucciderlo con le mie mani».
Balzò dunque sul serpente e tentò di strangolarlo a mani nude.
Non ci volle molto prima che la sua forza prodigiosa vincesse la battaglia, e il serpente cadde morto ai suoi piedi.
Ma ecco che un’oscurità improvvisa scese sulla montagna e cominciò a cadere una pioggia così fitta che il principe riusciva a malapena a vedere la strada che stava percorrendo. Poco dopo, tuttavia, mentre cercava brancolando la strada per scendere dalla montagna, il tempo si schiarì e il nostro eroe coraggioso potè fare rapidamente ritorno a valle.
Quando ebbe fatto ritorno, cominciò a sentirsi male e a provare bruciori dolorosi ai piedi, e capì che il serpente lo aveva avvelenato. Le sue sofferenze erano così atroci, che poteva muoversi solo con difficoltà e ancor meno poteva camminare, cosicché si fece portare fino a un luogo tra le montagne famoso per una sorgente termale calda che scorreva quasi bollente sotto le fiamme di un vulcano e sgorgava gorgogliando dalla terra.
Yamato Take si immerse ogni giorno in quelle acque e un po’ alla volta sentì che il suo vigore tornava e le sofferenze lo abbandonavano, finché un giorno si rese conto con gioia di essere quasi guarito.
Si affrettò dunque ai templi di Ise, dove aveva pregato prima di intraprendere la sua lunga spedizione. La zia, sacerdotessa del santuario, che lo aveva benedetto quando stava per partire, uscì per dargli il benvenuto. Lui le narrò dei numerosi pericoli che aveva affrontato e del modo prodigioso in cui la sua vita era stata salvata; la zia lodò il suo coraggio e il valore dei suoi guerrieri, poi con indosso le sue splendide vesti rese grazie alla loro antenata, la Dea del Sole Amaterasu, alla cui protezione entrambi attribuivano la prodigiosa salvezza del principe.
E qui finisce la storia del principe giapponese Yamato Take.

FINE

Immagini tratte dai siti: http://www.tao-yin.com

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