leggende orientali – UN LAC DI RUPIE IN CAMBIO DI UN CONSIGLIO

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Racconto popolare indiano

Tradotta da Dario55

UN LAC DI RUPIE IN CAMBIO DI UN CONSIGLIO

Un povero brahman cieco e sua moglie dipendevano dal figlio per la loro sussistenza. Ogni giorno il ragazzo usciva e portava a casa quel che poteva racimolare mendicando. La cosa andò avanti per un certo tempo, finché alla fine il figlio si stancò di una vita tanto miserabile e decise di andarsene a cercare fortuna in un’altro paese. Comunicò alla moglie la propria intenzione e le ordinò di occuparsi in qualche modo dei vecchi durante i mesi in cui sarebbe stato assente. La esortò a darsi molto da fare, nel timore che i suoi genitori si adirassero e lo maledicessero.
Un mattino partì con un po’ di cibo in un involto e camminò un giorno dopo l’altro, fino a quando giunse alla capitale del paese vicino. Qui andò a sedersi vicino al banco di un venditore e cominciò a chiedere l’elemosina. Il venditore gli chiese da dove veniva e qual era la sua casta: egli rispose che era un brahman e che andava vagando qua e là mendicando i mezzi di sussistenza per sé, la moglie e i genitori. Impietosito dalle condizioni di quell’uomo, il commerciante gli suggerì di far visita al re gentile e magnanimo di quel paese e si offrì di accompagnarlo a corte egli stesso. In quel momento il re stava appunto cercando un brahman che si occupasse di un tempio dorato che aveva appena fatto costruire. Quindi sua maestà fu molto felice quando vide il brahman e gli fu riferito che era persona buona e onesta. Subito lo incaricò della cura del tempio e diede ordine di pagargli un compenso di cinquanta kharwar di riso e cento rupie all’anno.
Due mesi dopo questi fatti, la moglie del brahman, non avendo più udito notizie del marito, lasciò la casa e partì alla sua ricerca. La fortuna la condusse proprio nel luogo in cui era giunto anche lui. Qui venne a sapere che ogni mattina al tempio dorato veniva data una rupia d’oro in nome del re a tutti i mendicanti che vi si recavano. E così il mattino dopo si recò al tempio e incontrò il marito.
«Perché sei venuta qui?» chiese lui. «Perché hai abbandonato i miei genitori? Non te ne importa niente che mi maledicano e io muoia? Torna subito indietro e aspetta il mio ritorno!»
«No, no», disse la donna. «Non posso tornare indietro a morire di fame e a veder morire tuo padre e tua madre. Non è rimasto un solo granello di riso in casa».
«O Bhagawant!» esclamò il brahman. «Prendi questo», disse poi, scrivendo qualche riga su un pezzetto di carta e porgendoglielo, «e dallo al re, e vedrai che ti darà un lac di rupie».
Così dicendo la congedò, e la donna se ne andò.

unlacdirupieSul pezzetto di carta c’erano scritti tre consigli. Primo: se una persona sta viaggiando e arriva nottetempo in un luogo estraneo, stia bene attenta a dove è ospitata e dorma con gli occhi aperti, nel timore di chiuderli nella morte. Secondo: se un uomo ha una sorella sposata e le fa visita in pompa magna, lei lo accoglierà nella speranza di ciò che potrà ottenere da lui; ma se si recherà da lei come un povero, lei lo guarderà male e lo disconoscerà. Terzo: se un uomo ha un’opera da compiere, deve farlo da solo, e deve farlo con forza e senza paura.
Arrivata a casa, la brahmani raccontò ai genitori del suo incontro con il mairto e di quale prezioso pezzo di carta le aveva dato, ma non volendo presentarsi personalmente davanti al re, mandò uno dei suoi parenti. Il re lesse il foglio, e ordinando che l’uomo fosse frustato, lo congedò. Il mattino dopo la brahmani prese il foglio e, mentre stava camminando lungo la strada verso il darbar [palazzo reale] leggendolo, il figlio del re la incontrò e le chiese cosa stesse leggendo, al che lei rispose che teneva in mano un foglio che conteneva dei suggerimenti dai quali si aspettava di ottenere un lac di rupie. Il principe le chiese di mostrarglielo e, dopo averlo letto, le diede un parwana per quella somma e si allontanò. La povera brahrnani era piena di gratitudine. Il giorno stessò fece una grande scorta di provviste, sufficiente a mantenerli per lungo tempo.
La sera il principe riferì al padre dell’incontro con la donna e dell’acquisto del foglio di carta. Pensava che il padre avrebbe approvato il suo operato. Ma non fu così. Il re si arrabbiuò più di prima ed esiliò il figlio dal paese.
E così il principe disse addio alla madre, ai parenti e agli amici, e galoppò via sul suo cavallo, per dove non sapeva.

Al cadere della notte raggiunse un luogo in cui incontrò un uomo che lo invitò ad alloggiare in casa sua. Il principe accettò l’invito e ricevette un trattamento regale. Fu stesa per lui una stuoia perché potesse sedervisi, e i migliori cibi gli furono posti davanti.
“Ah!” pensò mentre si stendeva a riposare, “questo è il caso di cui parla il primo consiglio che la brahmani mi ha dato. Stanotte non dormirò”.
Fu un bene che avesse preso questa decisione, perché a notte fonda l’uomo si alzò e, con una spada in mano, si scagliò sul principe con l’intenzione di ucciderlo. Ma il principe si alzò a sua volta e disse:
«Non uccidermi. Che guadagno ricaveresti dalla mia morte? Se mi uccidi, dopo saresti dispiaciuto come quell’uomo che uccise il proprio cane».
«Quale uomo? Quale cane?» chiese l’altro.
«Te lo dirò», rispose il principe, «se mi darai quella spada».
Allora quello gli diede la spada, e il principe cominciò a raccontare:
«Un tempo viveva un ricco mercante che aveva un cane. Improvvisamente cadde in povertà e fu costretto a separarsi dal suo cane. Ottenne un prestito di cinquemila rupie da un amico, anch’egli mercante, al quale lasciò in pegno il cane, e con il denaro si rimise in affari. Non molto tempo dopo, i ladri penetrarono nel negozio dell’altro e lo svuotarono completamente. Lasciarono sì e no dieci rupie. Ma il fedele cane, resosi conto di cosa stava accadendo, seguì i ladri e vide dove nascondevano la refurtiva, poi tornò indietro.
«Il mattino dopo, quando fu scoperto l’accaduto, nella casa del mercante si levarono pianti e lamenti. Il mercante sembrava essere sul punto di impazzire. In quel momento il cane entrò di corsa dalla porta e, tirando il padrone per il pigiama, cercava di fargli capire che voleva che lo seguisse fuori. Alla fine un amico suggerì che forse il cane sapeva qualcosa del luogo dove si trovava la refurtiva e consigliò il mercante di seguirlo. Il mercante acconsentì e seguì il cane fino al luogo dove i ladri avevano nascosto la refurtiva. Qui l’animale cominciò a grattare il suolo e ad abbaiare, facendo capire in molti modi che i beni erano lì sotto. Allora il mercante e i suoi amici si misero a scavare, e presto gli oggetti rubati vennero alla luce. Non mancava niente. Tutto era rimasto come i ladri l’avevano preso.
«Il mercante era felicissimo. Tornato a casa, subito rimandò il cane al vecchio padrone con una lettera arrotolata sotto il collare, in cui descriveva l’intelligenza dell’animale e lo pregava di dimenticare il prestito e di accettare le cinquemila rupie come un suo dono personale. Quando l’altro mercante vide il cane tornare da lui, pensò: “Povero me! Il mio amico rivuole i suoi soldi. Come farò a pagarlo? Non ho avuto abbastanza tempo per ricuperare le perdite. Ucciderò il cane prima che attraversi la porta di casa e dirò che deve essere stato ucciso da qualcun altro. E così finalmente il mio debito sarà estinto. Niente cane, niente prestito”. E così uscì e uccise il povero cane. Subito dopo la lettera cadde dal collare. Il mercante la raccolse e la lesse. Quale non fu il dolore e la disperazione quando scoprì come stavano le cose!
«Attento» continuò il principe «non fare quello che poi daresti la vita per non aver fatto».
Mentre il principe concludeva il racconto, si era quasi fatto giorno, così ripartì, non senza aver prima ricompensato l’uomo per l’ospitalità.
Poi il principe visitò il paese su cui regnava suo cognato. Si travestì da jogi e si mise a sedere sotto un albero vicina al palazzo, fingendo di essere concentrato nella preghiera. Ben presto alle orecchie del re arrivò notizia dell’uomo e della sua straordinaria devozione. Subito ne fu interessato, perché la moglie era gravemente ammalata, e aveva chiesto a molti hakim [medici] di curarla, ma invano. Forse quel sant’uomo, pensava, avrebbe potuto fare qualcosa per lei. Così lo mandò a chiamare. Ma lo jogi rifiutò di entrare nel palazzo del re, dicendo che la sua casa era l’aria aperta e che se sua maestà desiderava vederlo, doveva venire di persona e portare la moglie con sé. Allora il re prese la moglie e la portò dallo jogi. Il sant’uomo le ordinò di stendersi a terra davanti a lui e, dopo che fu rimasta in quella posizione per circa tre ore, le disse di alzarsi e andarsene, perché era guarita.
Quella sera ci fu grande agitazione a palazzo, perché la regina aveva perso il suo rosario di perle, e nessuno ne sapeva niente. Alla fine qualcuno ando dallo jogi e trovò le perle a terra, nel punto in cui la regina si era stesa. Quando il re udì questo, si infuriò e ordinò che lo jogi fosse messo a morte. Ma questo duro comando non fu eseguito, perché il principe aveva corrotto gli uomini del re ed era fuggito dal paese. E così aveva capito che anche il secondo consiglio era vero.
Il principe, con indosso i suoi veri abiti, stava camminando da un giorno intero, quando vide un vasaio che un po’ piangeva e un po’ rideva insieme alla moglie e ai bambini.
«Sei pazzo?» chiese. «Che succede? Se ridi, perché piangi? E se piangi, perché ridi?»
«Non mi seccare» disse il vasaio. «A te che importa?»
«Scusami» disse il principe, «ma mi piacerebbe conoscere il motivo».
«Il motivo è questo» disse il vasaio. «Il re di questo paese ha una figlia che è costretto a far sposare ogni giorno, perché tutti i mariti muoiono la prima notte che passano con lei. Quasi tutti i giovani del paese sono morti così, e presto sarà il turno di nostro figlio. Ridiamo per l’assurdità della cosa, il figlio di un vasaio che sposa una principessa, e piangiamo pensando alle conseguenze terribili di questo matrimonio. Cosa possiamo fare?»
«Davvero un motivo per ridere e piangere. Ma non piangete più», disse il principe. «Mi scambierò di posto con vostro figlio e sposerò la principessa al posto suo. Datemi solo dei vestiti adatti e preparatemi per l’occasione».
Allora il vasaio gli diete un bell’abito e degli ornamenti, dopodiché il principe si recò al palazzo. La sera fu condotto all’appartamento della principessa.
“Ora tremenda!” pensava, “dovrò morire come tutti quei giovani prima di me?”
Strinse con forza la spada e si stese sul letto, ben deciso a restare sveglio tutta la notte e vedere cosa sarebbe accaduto. A notte fonda vide due Shahmar uscire dalle narici della principessa. Avanzarono furtivamente verso di lui, con l’intenzione di ucciderlo come gli altri che erano stati lì prima di lui. Ma lui era pronto per loro. Afferrò la spada e appena i serpenti raggiunsero il suo letto, li colpì e li uccise. Al mattino il re arrivò a controllare come al solito e fu meravigliato nell’udire la figlia e il principe chiacchierare allegramente fra loro.
«Di sicuro quell’uomo deve essere suo sposo», disse, «dal momento che è l’unico che è riuscito a sopravvivere insieme a lei».
«Da dove vieni?», chiese il re entrando nella stanza. «Chi sei?».
«O re», rispose il principe, «sono il figlio di un re che regna su un paese».
All’udire ciò il re fu molto felice e invitò il principe a restare a palazzo, nominandolo suo successore al trono. Il principe rimase a palazzo per oltre un anno, poi chiese il permesso di visitare il suo paese, permesso che gli fu accordato. Il re gli diede elefanti, cavalli, gioielli e molto denaro per le spese di viaggio e come dono per suo padre, poi il principe partì.
Lungo il cammino gli capitò di attraversare il paese che apparteneva al cognato, di cui si è detto poc’anzi. La notizia del suo arrivo fu riferita al re, che gli andò incontro con le mani legate e il capestro al collo in segno di omaggio. Con la massima umiltà lo invitò a soggiornare a palazzo e ad accettare la modesta ospitalità che avrebbe potuto offrirgli. Mentre il principe si trovava a palazzo, vide la sorella, che lo salutò con sorrisi e baci. Prendendo congedo, raccontò a lei e al marito del trattamento che gli avevano riservato nella sua prima visita e di come aveva dovuto fuggire, poi diede loro due elefanti, due splendidi cavalli, cinquanta soldati e gioielli per un valore di dieci lac di rupie.
Quindi proseguì verso casa e informò la madre e il padre del suo arrivo. Ahimé! I suoi genitori erano diventati entrambi ciechi per quanto avevano pianto sulla perdita del figlio.
«Fatelo venire», disse il re, «e fategli posare le mani sui nostri occhi, così torneremo a vedere».
Il principe entrò e fu salutato con il più grande affetto dai suoi vecchi genitori; mise le mani sui loro occhi ed essi ricuperarono la vista.
Poi il principe raccontò al padre tutto quello che gli era accaduto e come era stato salvato più volte seguendo i consigli che aveva comperato dalla brahrnani. Al che il re manifestò il suo dispiacere per averlo cacciato, e tutto fu di nuovo gioia e pace.

FINE


NOTE

Testo in:
http://worldoftales.com/Asian_folktales/Indian_folktale_14.html
Illustrazione in:
http://www.gutenberg.org/files/7128/7128-h/7128-h.htm

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