leggende – PERCHE’ QUEL PESCE SI E’ MESSO A RIDERE?

0
5 1 Vota
Vota l'opera (solo registrati)

Leggenda dall’India

Tradotta da Dario55

Perché quel pesce si è messo a ridere?

Una pescivendola passò accanto a un palazzo strillonando i suoi pesci; la regina si affacciò a una delle finestre e la invitò ad avvicinarsi e a mostrarle cosa offriva. Proprio in quel momento un grosso pesce saltò in cima alla cesta.
«È un lui o una lei?» s’informò la regina. «Voglio comprare un pesce femmina».
Udendo questo, il pesce rise forte.
«È una lei», rispose la pescivendola, riprendendo il suo giro.
La regina rientrò nelle sue stanze molto infuriata, e quando alla sera il re andò da lei, si accorse che qualcosa l’aveva contrariata.
«Non ti senti bene?» chiese.
«No, sto bene, ma sono molto infastidita per lo strano comportamento di un pesce. Oggi una donna me ne ha portato uno, e quando ho chiesto se era maschio o femmina, quel pesce si è messo a ridere in modo molto villano».
«Un pesce che ride! Ma è impossibile! Devi aver sognato».
«Non sono pazza. L’ho visto con i miei occhi e l’ho udito con le mie orecchie».
“Stranissimo! Sarà andata così. Indagherà sulla faccenda».
L’indomani il re riferì al visir quanto la moglie gli aveva raccontato e lo incaricò di indagare e portargli una risposta soddisfacente entro sei mesi, pena la morte. Il visir promise che avrebbe fatto del suo meglio, anche se era praticamente certo del fallimento. Per cinque mesi lavorò instancabilmente sforzandosi di trovare un motivo per la risata del pesce. Cercò ovunque e presso tutti. I saggi e gli eruditi e coloro che erano esperti nella magia e in ogni sorta di trucchi furono consultati. Ma nessuno fu in grado di spiegare la questione, e così il visir tornò a casa con il cuore spezzato e cominciò sistemare i propri affari nella prospettiva di una morte certa, perché aveva avuto modo di conoscere a sufficienza il re per sapere che Sua Maestà non avrebbe rinunciato alla sua minaccia. Tra le altre cose, consigliò a suo figlio di viaggiare per un certo di tempo, finché l’ira del re non si fosse un po’ raffreddata.
Il giovane, che era al tempo stesso intelligente e bello, partì verso qualsiasi luogo il destino l’avesse condotto. Era partito da alcuni giorni, quando s’imbatté in un vecchio contadino, anch’egli in viaggio verso un villaggio. Trovando il vecchio molto piacevole, gli chiese se poteva accompagnarlo, dichiarando di essere diretto allo stesso luogo. Il vecchio contadino si disse d’accordo, e fecero la strada insieme. La giornata era calda, il cammino era lungo e faticoso.
«Non credi che sarebbe più piacevole se tu e io ci trasportassimo a vicenda?» disse il giovane.
“Che razza di sciocco!” pensò il vecchio contadino.
In quel momento stavano attraversando un campo di mais pronto per la falce e simile a un mare d’oro che ondeggiava e si rinfrescava nella brezza.
«Sarà mangiato oppure no?» disse il giovane.
Non comprendendo il significato, il vecchio rispose: «Non lo so».
Dopo non molto tempo i due viaggiatori giunsero in un grande villaggio, dove il giovane diede al suo compagno un coltello a serramanico e disse:
«Prendi, amico, e con questo prendi due cavalli, ma bada a riportarlo indietro, perché è molto prezioso».
Il vecchio, che sembrava per metà divertito e per metà arrabbiato, respinse il coltello, borbottando qualcosa nel senso che il suo amico o era veramente matto o cercava di fare il matto con lui. Il giovane fece finta di non notare la sua risposta e rimase in silenzio fino a quando non arrivarono alla città, poco distante da dove si trovava la casa del vecchio contadino. Fecero un giro del bazar e arrivarono al tempio, ma nessuno li salutò o li invitò a entrare a riposare.
«Che grande cimitero!» esclamò il giovane.
«Cosa vorrà intendere costui», pensò il vecchio contadino, «chiamando questa città popolosa un cimitero?»
All’uscita dalla città, il loro cammino li condusse attraverso un cimitero dove alcune persone pregavano accanto a una tomba e distribuivano chapati1 e kulcha2 ai passanti, in nome dei loro cari morti. Invitarono i due viaggiatori e diedero loro tutto quello che volevano.
«Che splendida città è questa», disse il giovane.
“Quest’uomo dev’essere sicuramente pazzo”, pensò il vecchio contadino. “Mi domando che cosa farà ancora. Chiamerà la terra acqua, e l’acqua terra; e parlerà di luce dove c’è oscurità, e di oscurità quando c’è luce?”.
Tuttavia tenne per sé i suoi pensieri.
In quel momento dovevano guadare un ruscello che scorreva lungo il bordo del cimitero. L’acqua era piuttosto profonda, quindi il vecchio contadino si tolse le scarpe e i pantaloni e attraversò. Ma il giovane guadò il ruscello con scarpe e pantaloni.
“Bah! Non ho mai visto uno tutto matto come questo, sia nelle parole che nei fatti”, disse il vecchio tra sé.
Tuttavia quel ragazzo gli piaceva e, pensando che avrebbe divertito anche la moglie e la figlia, lo invitò a venire a casa sua e a restare fino a quando doveva trattenersi nel villaggio.
«Grazie mille» rispose il ragazzo «ma prima permettimi di domandarti se le travi della tua casa sono robuste».
Il vecchio contadino, disperato, lo lasciò solo ed entrò in casa ridendo.
«In quel campo c’è un uomo», disse, dopo aver restituito saluti della moglie e della figlia. «È venuto con me per la maggior parte del cammino e vorrei che stesse qui fino a quando dovrà trattenersi in questo villaggio. Ma quel tipo è un tale sciocco che non riesco a combinarci niente. Vuole sapere se le travi di questa casa sono robuste. Deve essere pazzo» e, dicendo questo, scoppiò in una risata.
«Padre», disse la figlia del contadino, che era una ragazza molto acuta e saggia, «quell’uomo, chiunque egli sia, non è uno sciocco, come credi tu. Vuole solo sapere se puoi permetterti di ospitarlo».
«Oh, ma certo!» esclamò il contadino. «Capisco. Allora forse puoi aiutarmi a risolvere un po’ di altre sue cose misteriose. Mentre stavamo camminando insieme, mi chiese se lui doveva portare me o se io dovevo portare lui, perché pensava che sarebbe stato un modo più piacevole di viaggiare».
«Sicuramente», disse la ragazza, «intendeva che uno di voi doveva raccontare una storia per ingannare il tempo».
«Oh sì! Poi stavamo attraversando un campo di mais, quando mi ha domandato se era mangiato oppure no».
«E non riesci a capire cosa intendeva, padre? Voleva semplicemente sapere se il proprietario del campo era indebitato o meno, perché se era indebitato, allora il raccolto per lui era come mangiato, cioè sarebbe dovuto andare ai suoi creditori».
«Ma sì, sì, naturalmente! Poi, entrando in un villaggio, mi invitò a prendere il suo coltello a serramanico, prendere con quello due cavalli, e poi riportarglielo indietro».
«Non saranno due bastoni robusti come due cavalli per aiutare durante il cammino? Ti ha chiesto solo di tagliare un paio di bastoni e di fare attenzione a non perdergli il coltello».
«Ho capito», disse il contadino. «Mentre passeggiavamo per la città non abbiamo visto nessuno che conoscevamo, e nessuno ci ha offerto qualcosa da mangiare, finché non siamo passati attraverso il cimitero. Qui ci hanno chiamato e ci hanno messo tra le mani del chapati e della kulcha, così il mio compagno ha definito la città un cimitero, e il cimitero una città.
«Anche questo deve essere capito, padre: se si pensa alla città come il luogo dove tutto si può ottenere, e agli abitanti inospitali come se fossero peggio dei morti. La città, pur affollata di gente, per quanto vi riguardava, era come morta, mentre nel cimitero, affollato di morti, siete stati accolti da amici gentili che vi hanno offerto del pane».
«Vero, vero, vero!» disse il contadino stupito. «Poi, proprio poco fa, mentre attraversavamo il torrente, lui lo ha guadato senza togliersi le scarpe e i pantaloni».
«Ammiro la sua saggezza», disse la ragazza. «Ho pensato spesso a come certa gente stupida si avventura in quel ruscello che scorre veloce e su quelle pietre taglienti a piedi nudi. Il minimo inciampo e cadrebbero, e si bagnerebbero dalla testa ai piedi. Questo tuo amico è un uomo molto saggio. Vorrei vederlo e parlare con lui».
«Molto bene», disse il contadino, «andrò a chiamarlo e lo porterò in casa».
«Digli, padre, che le nostre travi sono abbastanza robuste, così entrerà. Gli manderò un regalo per dimostrargli che possiamo permetterci di averlo come ospite».
Chiamò un servo e lo mandò dal giovane a portargli in regalo una coppa di ghi3, dodici chapati, un vaso di latte e il seguente messaggio: “O amico, la luna è piena; dodici mesi all’anno, e il mare trabocca di acqua”.
A metà strada il portatore del dono e del messaggio incontrò il suo figlioletto che, vedendo quello che c’era nel cesto, pregò il padre di dargli un po’ di quel cibo. Suo padre stupidamente lo accontentò. In quel momento vide il giovane e gli diede il resto del dono insieme al messaggio.
«Porta alla tua padrona il mio saluto», disse al servo, «e dille che la luna è nuova, e che posso trovare solo undici mesi all’anno, e il mare non è affatto pieno».
Non capendo il significato di queste parole, il servo le ripeté alla sua padrona parola per parola, come le aveva udite; e così il suo furto fu scoperto, e fu severamente punito.
Poco dopo il giovane si presentò con il vecchio contadino. Gli fu mostrato grande rispetto e fu trattato come se fosse figlio di un grande uomo, anche se il suo umile ospite non sapeva nulla della sua origine. Alla fine raccontò loro tutta la storia – la risata del pesce, la minaccia di esecuzione di suo padre e la propria messa al bando – e chiese loro consigli su cosa dovesse fare.
«La risata del pesce», disse la ragazza, »che sembra essere stata la causa di tutti questi problemi, indica che nel palazzo c’è un uomo che complotta contro la vita del re».
«Evviva!» esclamò il figlio del visir. «Ho ancora tempo per tornare e salvare mio padre da una morte ignominiosa e ingiusta e il re dal pericolo».
Il giorno seguente si affrettò a far ritorno nel suo paese, portando con sé la figlia del contadino. Appena giunto corse al palazzo e riferì al padre ciò che aveva udito. Il povero visir, ormai quasi morto in attesa della morte, fu subito condotto dal re, al quale ripeté la notizia che il figlio aveva appena portato.
«Impossibile!» disse il re.
«Ma deve essere così, Vostra Maestà”, rispose il visir. “E per dimostrare la verità di ciò che ho udito, vi prego di riunire tutte le cameriere del vostro palazzo e di ordinare loro di saltare sopra un pozzo, che dovrà essere scavato». Così scopriremo se tra loro c’è un uomo».
Il re fece scavare il pozzo, e ordinò a tutte le cameriere del palazzo di provare a saltarlo. Tutte ci provarono, ma solo una ci riuscì. Così fu scoperto che era un uomo!
E così la regina fu soddisfatta, e il vecchio visir fedele fu salvo.
In seguito, appena possibile, il figlio del visir sposò la figlia del vecchio contadino; e il matrimonio fu quanto di più felice.


NOTE

1 – Pane tipico della cucina indiana prodotto a partire da un impasto di farina integrale, acqua e sale, che viene schiacciato fino a formare una pizza del diametro di circa 12 centimetri e poi cotto su una piastra asciutta e molto calda, su entrambi i lati.
2 – Tipo di pane indiano a base di farina di grano a grana molto fine tipica della cucina punjabi.
3 – Il ghi è il burro chiarificato usato nella cucina indiana e, in generale, nei Paesi asiatici. Si tratta di un burro privato dell’acqua e della componente proteica.

Testo originale e illustrazioni in:
http://www.mirrorservice.org/sites/gutenberg.org/7/1/2/7128/7128-h/7128-h.htm

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Feedbacks
Visualizza tutti i commenti
0
Lascia una recensione!x